martedì 28 aprile 2020

Giuseppe Capogrossi... Pettine o forchetta?



marzo 2020

Quando apro gli occhi al mattino, la prima cosa che faccio è prendere il telefono, accenderlo, strizzare gli occhi per la troppa luce che emana e cercare, mettendo a fuoco l'immagine, di cliccare i tasti giusti per accedere al blog.

INIZIO RIFLESSIONE

Ok, sono malata... dovrò cercare una terapia per curare questa mia "Blog-Mania"...

FINE RIFLESSIONE

Una volta qui, mi sforzo, tra uno sbadiglio e l'altro, di trovare il post del giorno, che in teoria grazie alla programmazione automatica è già stato pubblicato. E a quel punto, faccio di tutto (a volte lo ammetto, incasinandomi non poco) per riuscire a condividerlo nei vari social e contatti.

Dopo questa operazione vorrei anche ritornare a dormire, ma purtroppo il fatto che spesso creo qualche pasticcio col blog (una volta, addirittura ho temuto di averlo eliminato definitivamente... immaginatevi il panico assoluto!), mi induce a svegliarmi del tutto. Ed ecco allora che avendo già il telefono in mano, decido di dare un'occhiata alle ultime notizie. Avendo attivato tutta una serie di notifiche automatiche da parte di molti siti che parlano d'arte... sono letteralmente "bombardata" da informazioni a tema... e le notizie di cronaca (tanto sono sempre le stesse) aspettano...

La prima cosa che mi è uscita questa mattina è l'immagine di un'opera vista proprio qualche tempo fa a Palazzo Maffei (ricordate vero? ah no? beh, allora cliccate un po' qui...). Il messaggio era chiaro:

"Stai bevendo il tuo caffè? Oggi Andrea ti racconterà dell'opera di Giuseppe Capogrossi, Superficie CP/833/a. Buona pausa! ☕".
Questa comunicazione mi colpisce moltissimo per 2 cose: 
- 1 Capogrossi mi piace;
- 2 ma come si fa a dire buona pausa se devo ancora fare colazione e sono appena le 7.30 del mattino?

Non so a voi... ma a me, la cosa diverte...

Ok, non essendo esperta di tecnologia, comincio a cercare il video... ovviamente non trovandolo.  Scocciata, comincio a imprecare mentalmente con fb...

Solo qualche ora dopo scoprirò per caso, che era nelle "storie".

La prima volta che ho visto una tela di Capogrossi è stato ad Arte Fiera, Bologna, l'anno scorso.
Quando l'ho vista, mi sono fermata subito e con la faccia meravigliata di una bambina piccola che scopre una cosa meravigliosa, sono rimasta lì, in contemplazione per qualche minuto.
Insomma, l'opera di Capogrossi, che allora non conoscevo, ha attratto fin da subito la mia attenzione e Mr. Gallery, che in quell'occasione mi stava facendo da cicerone, vedendo il mio sguardo assorto e il mio sorriso inebetito, disse: "Questo artista si chiama Giuseppe Capogrossi, realizza le sue opere con questa specie di idioma arcaico, che sembra una forchetta."
L'idea di tante piccole forchette o pettinini mi fa sorridere e mi fa apprezzare ancora di più questi dipinti che mi riportano alla mente un mondo primitivo, un mondo bambino, un mondo semplice.


Questo artista è arrivato al linguaggio astratto dopo la seconda guerra mondiale, dopo essersi cimentato per diverso tempo in linguaggi più tradizionali.
Quel segno grafico, elementare sarà la sua fortuna.
Nelle sue opere queste forme vengono ripetute all'infinito, ma con ritmi diversi, come nella musica. Per lui questo segno non ha un significato simbolico,  è l'elemento base che utilizza in modo personale e originale per esprimersi: "se i miei quadri danno un'emozione, qualunque essa sia, già è bene."

L'artista moltiplica, allinea, ingigantisce la sua formula grafica spaziale.
I segni bianchi e neri si impossessano dello spazio, si incontrano, fino a costruire una sorta di catena.
Il segno può essere invertito, usato ritmicamente. Ci si può giocare come si vuole.

Capogrossi è abile nell’inserire anche il colore, che si accende nei toni del rosso e dell’arancio.
Le pennellate si fanno più vivaci e si animano. C’è chi in quei tratti ha visto una forchetta, chi un tridente. Siamo liberi di interpretarlo come vogliamo. 
Per l’artista sono soltanto moduli spaziali, fortemente liberi, tratto distintivo della propria personalità.
Potrebbero essere pensati come un'estensione della sua interiorità, unica ed originale.
Pensate che questo segno "misterioso", che lo contraddistingue, lo porta in giro per il mondo e gli fa avere successo!

 
Nel corso delle varie mostre e fiere che ho visto, ho incontrato molto spesso le sue "forchette" e ogni volta mi ritrovo a guardarle con il naso all'insù, stupita come la prima volta e rido perché è il primo artista di cui mi ricordo in automatico il nome... Ok, ok, sono facilitata dal suo tratto distintivo!

Che dire forse non avrò fatto la pausa caffè... vista l'ora, ma sicuramente la mia colazione è stata stimolata da Capogrossi visto che mi sono ritrovata a mescolare il mio te' caldo con una adorabile forchettina!

P.S. Oggi quando mangerete qualcosa con la forchetta o vi sistemerete i capelli con il pettine pensate a questo artista e... bevetevi un buon caffè!

2 commenti:

  1. Brava, bel post, te lo dice uno che ha un'opera di Capogrossi... Io mi permetto di mettere qui una mia breve riflessione in merito. Sono Giuseppe Grasso di Roma

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  2. CAPOGROSSI E IL SUO «MODULO»…
    Giuseppe Capogrossi, innamoratosi negli anni ’50, dopo il graduale abbandono della figurazione, di una forma-segno simile a un antico carattere cinese, usa quella forma dalla struttura costante ripetendola quasi all’infinito, per costruire lo spazio del quadro, sulle sue superfici, trovandole ogni volta un nuovo garbo, un ritmo diverso, come un fregio moderno e attualissimo nella sua se-gretezza. È lui stesso a chiarire all’intervistatore, in un raro filmato delle Teche RAI del 1959, questa tecnica pittorica il cui uso non è solo sperimentale ma anche esistenziale: «Mi è difficile parlare dei miei quadri. Molti mi chiedono di spiegare il loro significato. A me sembra che non occorra. Se danno un'emozione, qualunque essa sia, già è bene. E a molti la danno… Secondo quanto è stato scritto, c’è chi vi ha visto una forca, un artiglio, un tridente; però per me non è af-fatto questo. Per me è un modulo, il mio mezzo di espressione». Palma Bucarelli, nell’Introduzione al catalogo della GNAM del 1975, spiega così, in modo originale, la rappresentazione simbolica della sua interiore organizzazione spaziale: «Lo schema segnico… che diventerà tipico e ritornerà come il timbro di una nota musicale in tutta la pittura e la grafica dell’artista, può avere implica-zioni inconsce: mi sentirei di qualificarlo come il segno dell’esistenza, un mandala. Come nell’arte indiana, infatti, esso è un segno liberatorio che, mentre compendia nella propria figura lo spazio e il tempo, libera l’esistenza dai limiti dello spazio e del tempo».

    giusgras52@gmail.com

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